La sentenza della Corte d'Assise di Taranto che condanna, oltre ai fratelli Riva ex proprietari dell'acciaieria, anche Nichi Vendola ex Presidente della Regione Puglia e per alcuni anni leader indiscusso della sinistra radicale ed ambientalista, ha una grande valenza politica.
I giudici del maxi-processo "Ambiente svenduto" hanno condannato giuridicamente l'atteggiamento ambiguo che la sinistra italiana, anche quella più radicale, ha sempre avuto, nei fatti, di fronte alle questioni ambientali. Tanta retorica e demagogia in nome dell'ecologismo, ma poi nei fatti un asservimento alle logiche dell'impresa, anche a costo di un disastro ambientale prolungato e dalle conseguenze decennali.
Il caso dell'Ilva di Taranto è anche la storia, prima ancora che giudiziaria, di una sconfitta del finto approccio ecologista della sinistra chiamata a scegliere tra salute pubblica - ambiente da un lato e logiche produttiviste dall'altro.
Nel nome della salvaguardia del posto di lavoro, preso in ostaggio da chi paga oggi quel lavoro operaio per inquinare e uccidere domani le famiglie degli stessi operai.
Dentro questo dilemma, l'ecologismo italiano è sempre rimasto schiacciato, incapace di trovare una dimensione politica autonoma e veramente popolare.
Certo che un Presidente di Regione, per quanto estremista, ha il dovere di mediare le istanze sociali, di contribuire a trovare soluzioni che possano salvare lavoro e ambiente (salute pubblica). Anche quando appare impossibile, o estremamente costoso.
Ma nel caso dell'Ilva di Taranto gli atti giudiziari dimostrano che l'amministrazione pubblica rappresentata da Nichi Vendola ha "mediato", anzi "svenduto" prima ancora che iniziasse uno scontro. Ha fatto di tutto per ammorbidire le evidenze scientifiche sull'inquinamento degli impianti e sulla necessità di chiuderli fino alla completa messa in sicurezza.
Alla base delle accuse c'erano due perizie tecniche, quella chimico-ambientale e quella medico-epidemiologica: per i pubblici ministeri sono state queste a provare che l’acciaieria diffonde nell'ambiente sostanze cancerogene come benzo(a)pirene, diossine e pcb che ogni anno uccidono 30 persone e provocano centinaia di casi di gravi malattie, anche pediatriche.
Vendola secondo i giudici avrebbe messo a tacere l'ARPA, l'agenzia regionale per l'ambiente i cui rilievi denunciavano i pericoli dell'ILVA, utilizzando il suo forte ascendente politico-istituzionale.
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Vendola ha reagito duramente, come è suo diritto, alla sentenza di condanna a 3 anni e sei mesi di reclusione per aver "svenduto l'ambiente".
«Mi ribello ad una giustizia che calpesta la verità. È come vivere in un mondo capovolto, dove chi ha operato per il bene di Taranto viene condannato senza l’ombra di una prova. Una mostruosità giuridica avallata da una giuria popolare colpisce noi, quelli che dai Riva non hanno preso mai un soldo, che hanno scoperchiato la fabbrica, che hanno imposto leggi all’avanguardia contro i veleni industriali. Appelleremo questa sentenza, anche perché essa rappresenta l’ennesima prova di una giustizia profondamente malata»
«Sappiano i giudici — prosegue l’ex presidente della Regione Puglia — che hanno commesso un grave delitto contro la verità e contro la storia. Hanno umiliato persone che hanno dedicato l’intera vita a battersi per la giustizia e la legalità. Hanno offerto a Taranto non dei colpevoli ma degli agnelli sacrificali: noi non fummo i complici dell’Ilva, fummo coloro che ruppero un lungo silenzio e una diffusa complicità con quella azienda. Ho taciuto per quasi 10 anni — conclude Vendola — difendendomi solo nelle aule di giustizia, ora non starò più zitto. Questa condanna per me e per uno scienziato come Assennato è una vergogna. Io combatterò contro questa carneficina del diritto e della verità»
Vendola ricorrerà in Appello, e la sentenza che oggi lo condanna potrebbe domani essere rivista o cancellata.
Gli potrà essere ridato l'onore dell'amministratore corretto, ma non riuscirà mai più a convincerci di essere stato un leader che aveva a cuore le battaglie ecologiste.